Videosorveglianza sul luogo di lavoro

Videosorveglianza sul luogo di lavoro fra diritto di tutela e privacy

Il complesso equilibrio di controllo e riservatezza in ambito aziendale

Complici sistemi digitali sempre più interconnessi, machine learning, IoT, la recente espansione dell’IA e, non ultimo, soluzioni ad alta tecnologia economicamente più accessibili, l’installazione di impianti di videosorveglianza aziendale sta conoscendo un incremento senza precedenti. Un “giro di boa” smart tech che, da un lato, vede la tutela del patrimonio accompagnarsi all’innegabile potenziale di raccolta ed elaborazione dati a fini produttivi, dall’altro si scontra con i diritti sanciti per il prestatore d’opera subordinato dalla disciplina della privacy.

 

Il contesto normativo

Dalla parte del dipendente si schiera in primis il Codice civile che, all’art. 2087, richiama a suo vantaggio il diritto di tutela dell’“integrità fisica” e “personalità morale”. Una garanzia cautelativa che il datore di lavoro deve assicurare con adeguate “prudenza e diligenza”, ma la cui inosservanza spetta al prestatore d’opera dimostrare (lo chiarisce bene la sezione lavoro della Cassazione civile con la sentenza n. 1509 del 25 gennaio 2021).

Entrando nel merito della videosorveglianza: l’articolo 4 della legge n. 300 del 1970 (“Statuto dei lavoratori”), rivisitato e ampliato dal Dl. n. 151 del 14 settembre 2015 e quindi integrato dal n. 185 del 24 settembre 2016, consente l’impiego d’impianti audiovisivi solo per “esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale”.

 

Il nodo interpretativo

Il principio sopra enunciato arride dunque al diritto di ripresa finalizzata al monitoraggio del corretto funzionamento d’un macchinario così come di beni che possano subire danneggiamento o furto, ma non al mero controllo a distanza indiscriminato delle prestazioni” d’un dipendente. Al pari dovrà essere rispettata la privacy d’ambienti non direttamente connessi all’attività lavorativa come spogliatoi o sale riunioni, che però potrebbero integrare la videosorveglianza qualora si delinei concreto rischio di danni o furto di patrimonio aziendale: un potenziale e paradossico ossimoro cui ha contribuito lo scorso 16 novembre la sentenza n. 46188 della sezione penale della Cassazione rilevando che “il reato di cui all’art. 4 della L. 300/1970 è configurabile solo in presenza di dipendenti che gravitino nei luoghi ripresi dall’impianto di sorveglianza”. La situazione sembra dunque ben lungi dal mostrare chiarezza e coerenza applicativa.

 

Il ruolo delle rappresentanze sindacali

L’installazione di strumenti di videosorveglianza, va detto inoltre, è consentita solo previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o Ispettorato del lavoro, cui deve seguire debita informazione ai dipendenti circa la presenza degli stessi. È dunque in ultima analisi nell’esposizione ai rappresentanti dei lavoratori delle peculiari e specifiche finalità non coercitive o lesive della privacy che si può addivenire, con buona pace dei “ripresi”, all’installazione. E in questo solco dovrà attestarsi anche l’integrazione tecnologica di ultima o futura generazione, AI compresa.